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Sentenza n° 44 del Tribunale di Verona, – 1 dicembre 1999

ESERCIZIO PRATICO: Commentare la seguente sentenza

Prenome imposto non gradito

Tribunale di Verona, -1 dicembre 1999

(Omissis). Sentito il relatore, osserva: la ricorrente, nata a V. il … chiede “che sia sostituito il nome Immacolata con il nome proprio Claudia, con gli effetti dell’art. 454 c.c.”.

Ha prodotto documentazione varia (corrispondenza per lavoro e con amici) per comprovare l’uso perdurante nel tempo di tale nome, che a suo dire ha sempre preferito a quello impostole alla nascita che richiama la religione cattolica, con la quale reputa incompatibili i propri orientamenti ideali e politici.

Il Procuratore della Repubblica ha cosi dedotto: nulla oppone”.

Dopo la richiesta di chiarimenti, è stata depositata la memoria.

Il ricorso va dichiarato inammissibile e infondato.

L’ordinamento conosce, nel testo unico dello stato civile (.:d. 1 238/1939), la possibilità di cambiamento del prenome mediante richiesta al Procuratore generale della Corte di Appello nella cui giurisdizione è situato l’ufficio dello stato civile dove trovasi l’atto di nascita, al quale la richiesta si riferisce. A tale organo giudiziario compete in via esclusiva la possibilità di valutare se l’istanza sia giustificata (art. 158).

La M. sostiene che sia applicabile la procedura in camera di consiglio ex art. 167 t.u., a suo avviso più “garantista”.

È noto che è possibile, per tal via, invocare le ipotesi di cui all’art. 166, che consente la rettificazione degli atti di nascita quando contengono nomi ridicoli o vergognosi o che recano  offesa all’ordine pubblico, al buon costume o al sentimento religioso.

Nessuna di queste ipotesi ricorre nel caso di specie, giacché il prenome Immacolata è molto diffuso e largamente accettato nella popolazione, sicché non può esservi pregiudizio all’onore o al decoro della persona nel portarlo.

Il sentimento religioso cui fa riferimento la norma non è quello del singolo, ma quello della collettività.

Esso non può essere offeso dalla attribuzione del nome Immacolata, ricevendo invece in tal modo riconoscimento e omaggio, per il tributo portato alla divinità il cui credo è il più diffuso nella collettività nazionale, oltreché riconosciuto dallo Stato con i patti lateranensi prima e con il nuovo “Concordato” più di recente.

Consapevole di ciò, parte istante lamenta che il prenome impostole entra in conflitto con la libertà di coscienza del singolo, unico valore che a suo avviso l’ordinamento potrebbe proteggere “nell’accezione di pubblico sentimento religioso”.

L’argomentazione non ha pregio. Evidente è la diversità dei valori che vengono in evidenza. Da un lato il diritto all’identità personale, inteso in una nozione di massima ampiezza, dall’altro il sentimento religioso collettivo, che è offeso solo quando si utilizzi un nome che reca comunque pregiudizio ai valori religiosi (anche non cattolici) diffusi nella comunità nazionale.

La norma esistente vuol consentire che vengano rimossi nomi in contrasto con il senso religioso di una comunità organizzata, cui preme il rispetto di un valore che è collettivo e che deve essere quindi riconoscibile nell’ambito sociale.

Non può pertanto coincidere con questa nozione di sentimento religioso il risolversi di esso nel sentimento del singolo, che è ovviamente orientato su una sfera di interessi e valori meramente individuale.

Né sembra appropriato invocare un’interpretazione costituzionalmente più moderna, come reputa l’istante.

Occorre infatti ricordare che la Costituzione ha si riconosciuto all’art. 22 che la volontà dello Stato non può modificare per motivi politici il nome dell’individuo, ma nell’ordinamento l’immutabilità del nome è anche stabilita nel pubblico interesse.

Il divieto all’individuo di mutare arbitrariamente nome risponde all’esigenza della collettività di poter riconoscere un individuo, nella molteplicità dei rapporti che si intrecciano nel corso della sua vita, sempre con lo stesso nome. La comunità può tollerare solo mutamenti prevedibili sulla base della normativa esistente (es.: il cambiamento parziale del cognome per matrimonio o quello di prenome a seguito di cambiamento di sesso) o per ipotesi residuali e nelle quali vi sia altro pubblico interesse di maggior rilievo.

È agevole osservare peraltro che ove la modifica del nome venisse rimessa alla mera volontà del singolo, si potrebbe assistere nell’arco di una vita a molteplici cambiamenti, legati, per restare al caso in esame, a possibili conversioni dal credo religioso professato ad altro credo, non rare ed anzi frequenti nella società attuale.

Verrebbe leso in tal modo l’interesse collettivo a individuare i componenti la comunità, contras- segnando con un elemento perpetuo e di generale utilizzo, il nome, un soggetto non solo di diritti ma anche di obblighi, nei rapporti privati e in quelli sociali.

Da ultimo mette conto rilevare che è largamente diffuso nel nostro costume l’uso di uno pseudonimo, tutelabile alla stessa stregua del nome allorché sia usato da una persona in modo da acquistare l’importanza del nome (art. 9 c.c.).

Non sembra dunque sussistere alcun profilo di incostituzionalità delle norme considerate, apparendo soddisfatta ogni istanza personalistica meritevole di considerazione e compatibile con le esigenze della collettività.


16 Comments

  1. Nel nostro ordinamento, da tutto un complesso di norme si desume come il principio dell’immutabilità del nome non sia assoluto ma, al contrario, passibile di eccezioni.
    Tuttavia, il legislatore ha disciplinato dettagliatamente la procedura di modifica o rettifica del nome prevedendo che, per il suo fondamentale interesse pubblicistico, essa non possa essere rimessa all’esclusivo arbitrio della persona, ma debba essere consentita nei soli casi e modi previsti dalla legge.
    Infatti, come affermato nella sentenza n.44/1999 del Tribunale di Verona, “ove la modifica del nome venisse rimessa alla mera volontà del singolo, si potrebbe assistere nell’arco di una vita a molteplici cambiamenti”, i quali sarebbero idonei a ledere l’interesse collettivo ad individuare i componenti della comunità con un nome perpetuo e di generale utilizzo.
    In caso di domanda di cambio del prenome, viene in evidenza l’esigenza di una mediata individuazione della serietà del fatto e dei connessi motivi di rilievo anche morale dell’istanza.
    Come previsto dal R.d. 9 luglio 1939 n. 1238, è possibile chidere la rettifica degli atti di nascita solo quando contengano nomi ridicoli o vergognosi o che recano offesa all’ordine pubblico, al buon costume o al sentimento religioso.
    Per questi motivi ritengo che, se da un lato non sia pienamente condivisibile l’idea – troppo semplicisticamente espressa nella sentenza del Tribunale di Verona – secondo la quale “il prenome Immacolata è molto diffuso e largamente accettato nella popolazione, sicché non può esservi pregiudizio all’onore o al decoro della persona nel portarlo”, mi trovo d’accordo con la medesima sentenza là dove afferma che, senza dubbio, “la norma vuole consentire che vengano rimossi nomi in contrasto con il senso religioso di una comunità organizzata, che è collettivo. […] Non può pertanto coincidere con questa nozione di sentimento religioso il risolversi di esso nel sentimento del singolo, che è ovviamente orientato su una sfera di interessi e valori meramente individuale.”
    A questo proposito, credo sia importante citare la circolare n. 14/2012 del Ministero dell’Interno, che si concentra sulla questione in esame, sostenendo che “l’indicazione delle ragioni, effettuata dall’istante, assume precipuo rilievo al fine di valutare la meritevolezza della richiesta stessa e l’eventuale conflitto con situazioni giuridiche facenti capo a terzi ovvero ancora per verificare che non vi siano esigenze di pubblico interesse che richiedono di rigettare la domanda”. Ciò in quanto L’ISTANTE NON HA UN DIRITTO SOGGETTIVO AL CAMBIAMENTO DEL NOME E/O COGNOME.
    Infine si consideri che la ricorrente avrebbe potuto utilizzare uno pseudonimo, dato che nel nostro ordinamento esso è tutelabile alla stessa stregua del nome , allorché sia usato in modo da acquistare l’importanza del nome (art. 9 c.c.), così come ricordato dalla sentenza del Tribunale di Verona.

  2. asebeya

    Il caso trattato fa emergere giustificati dubbi sulla laicità della veste del giudice:

    Innanzitutto lascia perplessi il riferimento che si fa all’art. 454. La norma mira ad identificare i casi in cui è consentito il cambiamento del nome. A secondo della norma il nome può essere cambiato quando si tratta di un’offesa all’ordine pubblico, al buon costume o al sentimento religioso inteso come il sentimento religioso della collettività.
    È palese che il nome nel caso specifico non reca nessun pregiudizio ai valori religiosi e questo viene anche affermato nel giudizio. Nonostante ciò il giudice apparentemente trova un’ulteriore utilizzo della norma leggendola in chiave positiva. In questo modo identifica in essa i casi di immutabilità del nome. Questa inversione di senso lo esplicita pure affermando che nel caso specifico (Immacolata) non si tratta di un’offesa, ma, al contrario, di un “riconoscimento e omaggio, per il tributo alla divinità”.

    Il giudice si impegna a ricondurre l’interpretazione alla norma stessa, appoggiandosi sul dato di fatto della maggior diffusione territoriale del credo di cui è espressione il nome nel caso concreto. In questo modo solleva il criterio neutro della collettività ex art.454 ad un mero criterio numerico tale da fungere anche come criterio esclusivo, cioè idoneo ad escludere altri sentimenti religiosi meno diffusi. Successivamente tenta di giustificarsi (fallendo disperatamente) e cita erroneamente i patti Lateranensi e il successivo Concordato i quali a suo avviso riconoscono il credo cattolico come credo maggiormente diffuso.

    Si ha l’impressione che secondo il giudice “l’offesa”, di cui l’art. 454, si realizzasse nel momento in cui il sentimento religioso del singolo e quello collettivo non coincidono, ovvero nel momento in cui in singolo non accetti che il suo diritto personalissimo all’identità e la libertà di coscienza soccombano di fronte ad un sentimento religioso collettivo.

    Inoltre ritengo che l’argomento citato del pubblico interesse e dell’esigenza della collettività di poter riconoscere un individuo sia infondato dato che il soggetto in questione ha provato l’utilizzo prolungato nel tempo del nome prescelto (“Giulia”).

    Ergo: Immacolata si senta beata di poter portare questo nome.

  3. L’ordinamento italiano tutela il diritto al nome, come un diritto inviolabile della persona agli art.art 7/8 Cost.
    Tuttavia il principio dell’immutabilità del nome non è assoluto ma soggetto ad eccezioni come si desume dal d.p.r 396/2000 art.101 che disciplina il procedimento di rettificazione del nome, prevedendo in forza del rd 1939/1238 i casi in cui la modifica del nome è lecita, ossia di fonte a nomi vergognosi, ridicoli, che offendono l’ordine pubblico, il buon costume e il sentimento religioso.Nella sent.44 del tribunale di Verona del 1/12/1999 alla ricorrente viene vietata la possibilità di modificare il nome Immacolata con il nome Claudia,in quanto il primo non è idoneo a recargli offesa alla luce di un’interpretazione del sentimento religioso in chiave esclusivamente collettiva.Le argomentazioni portate a sostegno di tale tesi si fondano su una lettura del sentimento religioso che è offeso solo di fronte a nomi che creano un pregiudizio ai valori religiosi collettivi, a mio avviso difficilmente individuabili in una società multi-religiosa. A sostegno della non offensività del nome Immacolata il giudice cita il largo riconoscimento ricevuto dalla comunità nazionale e dallo stato prima con i patti lateranensi e poi con il nuovo concordato.Tali argomentazioni scarsamente motivate non coincidono con una lettura costituzionale più moderna,come proposta dalla ricorrente, del pubblico sentimento religioso, atto a tutelare la libertà di coscienza e il diritto all’identità personale. AbbArccio tale tesi a discapito di quella portata dal giudice che effettua una forzatura nel citare il nuovo concordato del 1984 che è atto a ribadire in conformità dei valori costituzionali la piena laicità dello stato.Inoltre il criterio neutro della collettività è stato trasformato, senza nessun fondamento, in un criterio numerico esclusivo ,a sostegno della maggiore diffusione del credo cattolico. Di fronte al bilanciamento tra la libertà di coscienza e l’interesse collettivo ad una certa e rapida individuazione dei soggetti della collettività ,il giudice tutela maggiormente il secondo anche di fronte ad un panorama di valori costituzionali in cui spicca la tutela verso la libertà di coscienza.La ricorrente aveva dimostrato l’uso perpetuo del nome Claudia da parte dei membri a lei più cari della collettività, di conseguenza la forte tutela data dal giudice all’interesse collettivo per una rapida individuazione della persona è scarsamente condivisibile nel caso di specie .In definitiva ritengo necessaria un’interpretazione più attuale del sentimento religioso collettivo alla luce della laicità dello stato e soprattutto di fronte ad una società fondata sul pluralismo religioso, ed è evidente la maggiore tutela che la costituzione dà al valore della libertà di coscienza.

  4. blackbird

    Il giudice del tribunale di Verona con la sentenza n° 44 del 1999 ha dichiarato “inammissibile e infondato” il ricorso della signora Immacolata, dichiarando che nel caso di specie non è possibile invocare la tutela ex art. 166 del Regio Decreto 1238/1939.
    Tale articolo, che afferma che “Sono rettificati d’ufficio, tenendo conto, in quanto è possibile, del desiderio delle parti interessate per la scelta del nuovo nome, gli atti di nascita formati dopo l’entrata in vigore del presente decreto:
    1)quando sono stati imposti nomi, e per i figli di genitori non conosciuti anche cognomi, ridicoli o vergognosi o che recano offesa all’ordine pubblico o al buon costume o al sentimento nazionale o religioso(…)”, è stato preso in considerazione poiché la ricorrente percepiva nel suo nome una violazione del suo diritto alla libertà di coscienza e desiderava modificarlo.
    Il nocciolo della questione è senza dubbio il significato attribuito alla locuzione “sentimento religioso”, che il giudice ha erroneamente interpretato come sentimento non del singolo ma della collettività. Probabilmente nel momento in cui la norma è stata scritta questa era l’unica interpretazione presa in considerazione, ma sessant’anni dopo il giudice avrebbe dovuto quantomeno motivare la sua presa di posizione.
    L’articolo 19 della Costituzione garantisce a tutti la libertà religiosa e afferma, implicitamente, il principio di laicità dello Stato. Da ciò deriva che non spetti al giudice affermare che il nome Immacolata, essendo “tributo portato alla divinità il cui credo è il più diffuso nella collettività nazionale”, non possa recare offesa al sentimento religioso di un individuo. È infatti indubbio che il nome in questione richiami direttamente il culto mariano e il fatto che sia “molto diffuso e largamente accettato dalla popolazione” non implica che non possa essere motivo di forte disagio e imbarazzo per una persona che non si riconosce minimamente in esso.
    In più l’art. 2 della Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, e il diritto alla libertà di coscienza rientra appieno in questa fattispecie.
    Più convincente appare la seconda parte della decisione, che sottolinea come l’immutabilità del nome sia stabilita nel pubblico interesse e che, se si ammettesse la possibilità di cambiare il proprio nome a causa del proprio credo, si rischierebbe di assistere a tanti cambiamenti quante sono le conversioni religiose.
    Si deve però ritenere che il diritto del singolo alla libertà di coscienza, prevalga sull’interesse della collettività e che nel caso di specie, anche se vi fosse una conversione futura, il nome prescelto (“Claudia”) non sarebbe modificato, essendo stato sempre preferito all’altro e non avendo, tra l’altro, una connotazione religiosa.
    Di conseguenza, il giudice non avrebbe dovuto dichiarare l’infondatezza del ricorso, ma avrebbe dovuto dare all’art. 166 un’interpretazione costituzionalmente orientata richiamando gli artt. 2 e 19 della Costituzione.

  5. La sentenza del tribunale di Verona del 1 dicembre 1999, riguarda l’istanza di una donna di nome Immacolata che chiede la conversione del proprio nome in Claudia, dal momento che ritiene il primo incompatibile con le proprie idee politiche e religiose.
    Il giudice rifiuta la richiesta. L’art. 6 c.c. (diritto al nome) recita che sia possibile modificare il proprio nome solo nei casi presentati dal d.p.r 396/2000 ( oggi la materia è stata abrogata dal d.p.r. 54/2012). Non si tratta pertanto di un diritto arbitrario in quanto la costanza del nome è posta a garanzia, come sottolineato dalla sentenza, del riconoscimento dell’ individuo nella società; garanzia che viene meno solo di fronte ad un nome lesivo dell’ordine pubblico, del buon costume e del sentimento religioso.
    Se la premessa della Corte sulla non arbitraria modifica del nome, appare condivisibile, essa sostiene anche che il nome Immacolata non possa essere lesivo del sentimento religioso collettivo in quanto richiamo alla religione cattolica, confessione altamente diffusa in Italia e riconosciuta dal concordato Stato-Chiesa del 1929 e dalla successiva modifica del 1984. La Corte, però, dimentica che la Carta Costituzionale all’art. 8 sancisce l’uguaglianza tra le diverse confessioni religiose senza attribuire una posizione superiore al credo cattolico. Inoltre lo Stato italiano è uno Stato laico come si evince dal combinato disposto degli articoli 2,3,7,8,19 e 20 ( Corte Costituzionale sent.203/1989).
    Quest’ultimo punto è particolarmente interessante in relazione al caso perchè nella stessa sentenza la Corte Costituzionale afferma che il principio di laicità comporta la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale; in particolare l’articolo 19 ricomprende nella libertà religiosa anche quella di non professare alcuna religione.
    Pertanto si presenta un contrasto tra l’interesse della comunità al riconoscimento del cittadino e la libertà di coscienza, sancita anche dall’art. 9 della CEDU. Considerando il diritto di cambiare un nome che richiama il fenomeno religioso come un corollario della libertà di coscienza questo non potrebbe trovare ostacolo se non quando lesivo “della pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui”. ( art.9.2 CEDU).
    Il contrasto tra gli interessi trova, quindi, un diritto di libertà di coscienza (rivendicato dalla signora Immacolata) tutelato da principi costituzionali e norme internazionali gerarchicamente superiori alle norme ordinarie che prescrivono il mutamento del nome solo in presenza di determinate fattispecie.

  6. Nel caso deciso dal TAR di Verona con la sentenza 44/1999, si è affermata l’impossibilità per l’istante di poter cambiare il nome da Immacolata a Claudia, quest’ultimo usato spesso dalla stessa. La parte invocava la tutela in camera di consiglio provando che il nome datole alla nascita fosse oramai apertamente in contrasto con i propri ideali politici e religiosi, producendo anche documentazione varia per provare l’uso perdurante del nuovo nome da questa preferito.
    Il TAR rigetta la questione negando alla parte la possibilità di cambiare nome. La ragione addotta è quella secondo la quale il nome Immacolata non soddisfa i requisiti per il cambio previsti dal rd n1238/1939, in forza del quale la modifica del nome è lecita quando si tratti di nomi ridicoli, vergognosi o che recano offesa all’ordine pubblico, al buon costume o al sentimento religioso. Innanzitutto il giudice si è trovato di fronte a fattispecie particolarmente ampie, in particolare quella del sentimento religioso, a cui egli ha dato una lettura in un’ottica collettiva. La signora Immacolata non si poteva vergognare o sentire offesa secondo l’art 166 del regio decreto in quanto portatrice del nome di una divinità particolarmente cara e diffusa nel sentire comune della società italiana, nonché apertamente riconosciuta dal Concordato stipulato con la Chiesa Cattolica. La legge del 1939 appare, dal mio punto di vista, apertamente contrastante con l’interpretazione data dal giudice del 1999. A distanza di quaranta anni la collettività si è certamente evoluta ed era ancora allora in divenire, con la conseguenza di un’apertura al multiculturalismo e a una eterogeneità di credi religiosi. La decisione del giudice sembra infatti ignorare volutamente i cambiamenti sostenuti dalla società nazionale e volerla ridurre a una collettività esclusivamente cattolica non tiene conto del sempre più progressivo abbandono delle appartenenze religiose, in nome di un più dichiarato ateismo (tutelato nella sua accezione di manifestazione del pensiero all’art 21 della Costituzione) . A mio avviso viene messa in dubbio la laicità della decisione, minando anche il diritto della parte istante a vedersi riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, che nei rapporti sociali e collettivi si esplica, primariamente, attraverso l’utilizzo di un nome che, lungi dall’essere solo una parola, si fa portatore di idee, messaggi e valori.

  7. Il tribunale di Verona con sentenza n. 44 del 1999, ha dichiarato “inammissibile e infondato” l’istanza della ricorrente alla tutela ex art. 166 del R.D. 1238/1939.
    Nella fattispecie in esame la ricorrente richiedeva la conversione del proprio nome “Immacolata”, iscritto nell’atto di nascita, con quello di “Claudia”, in quanto contrario alle sue idee politiche e religiose.
    Il giudice di merito ha ritenuto ingiustificata la causa petendi con espresso riferimento all’art.166 del R.D. 1239/1939 che sancisce la possibilità di rettifica del nome “quando sono stati imposti nomi, ridicoli e vergognosi o che recano offesa all’ordine pubblico o al buon costume o al sentimento nazionale e religioso”, con interpretazione di quest’ultimo quale sentimento religioso collettivo posto a tutela del pubblico interesse. Il richiamo ai Patti Lateranensi e dunque al Concordato Stato-Chiesa del 1929 e alla sua successiva modifica nell’Addizionale del 1984, suscitano i primi dubbi di incostituzionalità della norma in questione. Infatti prendendo in esame principio informatore della laicità sancito nella sentenza n. 203 del 1989 e prendendo in considerazione gli articoli 2,3,7,8,19 e 22 della Costituzione del ’48, rispettivamente a tutela dell’individuo e dei suoi diritti inviolabili, dell’uguaglianza formale e sostanziale, dell’uguaglianza delle confessioni religiose, libertà religiosa e del diritto al nome, è chiaro il contrasto della norma applicata dal giudice con gli interessi considerati meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico e dunque con quelli, nel caso concreto, della libertà di coscienza, del pluralismo religioso e della laicità. Va richiamata inoltre, per la valutazione della meritevolezza della tutela, nel contesto di una società globale, il necessario riferimento alla normativa comunitaria e internazionale ed in particolare all’art.9 CEDU sulla libertà di coscienza del singolo. In questa prospettiva appare errata ed inidonea la sentenza di rigetto del giudice di merito che a garanzia delle norme costituzionali a tutela del singolo avrebbe dovuto sollevare la questione di legittimità.

  8. Nel nostro ordinamento giuridico è possibile ricavarci in maniera esplicita il “diritto al nome”, alla luce dell’art. 22 della Costituzione, per cui <<nessuno può essere privato, per motivi politici, della cittadinanza, della capacità giuridica, del nome. In ogni caso il nome, «primo e più immediato segno distintivo» dell’identità personale, fa parte con essa del patrimonio irretrattabile della persona umana (art. 2 Cost.).
    Indirettamente lo Stato, alla luce della forte valenza giuridica, sociale e morale del nome, deve garantire l'immutabilità di quest'ultimo al fine di tutelare un pubblico interesse.
    Ovviamente il bravo giurista, avvalendosi di una interpretazione sistematica, dovrà constatare che il principio dell'immutabilità del nome ammette delle eccezioni, alla luce della rettificazione del nome (d.P.R. 3-11-2000, n. 396, ex art. 454 c.c.) e del Regio decreto n. 1238/ 1939, il quale affida alla Procuratore generale della corte d'appello la possibilità di rettifica dell'atto di nascita, qualora quest'ultimo contenga nomi/cognomi «ridicoli o vergognosi o che recano offesa all'ordine pubblico o al buon costume o al sentimento nazionale o religioso, o che sono denominazioni di località».
    Questi riferimenti normativi saranno interpretati nella storica sentenza n. 44/1999 del Tribunale di Verona, la quale include l'istanza di una donna di nome Immacolata che chiede la conversione del proprio nome in Claudia (ai sensi dell'ex art. 454 c.c.), in quanto il nome di nascita lederebbe con le proprie idee politiche e religiose. In seguito, il Tribunale dichiarò l'inammissibilità e l'infondatezza della pretesa, in quanto il nome di nascita non è da ritenersi lesivo del sentimento religioso in primis (inteso come il sentimento della collettività e non del singolo), del sentimento nazionale e delle norme imperative (Regio decreto n.1238/1939). Tali argomentazioni saranno motivate e sostenute dal Tribunale dal fatto che il nome in questione sia molto diffuso nella società ed è accettato anche dalla chiesa (Patti Lateranensi del 1929), ed infine, la possibile conversione del nome potrebbe arrecare una lesione del pubblico interesse (art. 22 Cost.).
    In una prima analisi sembra difficile discostarsi dall'orientamento e dalla ratio della giurisprudenza su questo caso concreto, ma se svolgessimo un analisi più accurata delle argomentazioni della difesa, potremmo notare dubbi sul rispetto del principio supremo dell'ordinamento costituzionale (“laicità”) in relazione all'articolo 19 della Costituzione; in quanto non verrà garantita la libertà di coscienza, intesa come libertà di autodeterminazione in materia etico-religiosa. In proposito, possiamo accostare l'art. 9 della CEDU, la quale distingue e mette in connessione (insieme alla libertà di pensiero) la libertà di coscienza con la libertà di religione. Automaticamente la signora Immacolata, alla luce di questi articoli, potrebbe rivendicare una lesione di un “diritto soggettivo perfetto”, in quanto la donna non avrebbe la possibilità di convertire il suo nome per motivi di un proprio sentimento religioso. Da ultimo non possiamo dimenticare l'importanza che riveste l'art. 9 c.c., il quale permette l'uso di uno pseudonimo, allorché sia usato in modo da acquistare l'importanza del nome. Quest'ultimo articolo equivale alla principale valvola di sfogo della sentenza, di conseguenza, permette al giudice di raggiungere un equilibrio ragionevole tra i pubblici interessi ed interessi personali della donna. Con tale equità interpretativa, in questa sentenza non sembrano sussistere grandi dubbi di costituzionalità.Commento

  9. Emanuela

    Il caso in analisi, la sentenza n. 44 del 1999 del Tribunale di Verona, fa riferimento ad una Signora nata a Verona la quale ricorre al suddetto tribunale ai sensi dell’art. 454 c.c. facente riferimento alle rettificazioni degli atti, chiedendo la sostituzione del proprio nome Immacolata in Claudia, poiché in contrasto con le proprie ideologie, essendo non credente.
    Il ricorso viene dichiarato inammissibile e infondato dal tribunale dato che non ricorrono i requisiti specifici richiesti dalla normativa dedicata alla possibilità di cambiare il prenome, espressamente disciplinati dal legislatore. Infatti nel nostro ordinamento è consentita la rettificazione degli atti di nascita quando contengono nomi ridicoli o vergognosi o che recano offesa all’ordine pubblico, al buon costume o al sentimento religioso ex art. 166 T.U.
    La ragione addotta dal tribunale è quella che nessuna di queste ipotesi ricorre poiché il nome Immacola è largamente diffuso e accettato nel nostro paese quindi non reca pregiudizio di nessun genere, in particolare viene sottolineato come il mutare del nome del singolo individuo possa essere, al contrario, pregiudizievole per la collettività che deve poter avere la certezza di riconoscere un individuo: ciò non accadrebbe nel caso in cui tale modifica del nome venisse rimessa alla mera discrezionalità del singolo. Nel caso concreto tale preoccupazione verrebbe smentita e attenuata dalla documentazione varia fornita dalla ricorrente che attesterebbe il fatto di essere sempre stata riconosciuta da amici, colleghi, etc., con il nome di Claudia.
    Il riferimento al sentimento religioso visto in un ottica individualista consentirebbe alla ricorrente la possibilità di cambiare il proprio nome perché contrastante con le proprie ideologie religiose. Tale ottica non è quella utilizzata nella sentenza, dove al contrario, il sentimento religioso viene considerato in riferimento alla comunità e questa tesi non può più essere condivisibile nel momento in cui ci si trovi in una realtà multiculturale dove risulta difficile porre dei limiti o dei valori espliciti.
    Il giudice fa anche un improprio riferimento sia ai Patti Lateranensi che al nuovo Concordato del 1984, che all’opposto con quanto affermato, ribadiscono la piena laicità dello stato, concordemente con quanto enunciato nella Costituzione. Ed infatti si ha anche un contrasto con alcuni principi fondamentali come quelli sanciti negli art. 2, 3, 7, 8, 19 e 22 Cost. (in particolare la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali; e il diritto di professare la propria fede come di non farlo, il c.d. principio di libertà religiosa negativa), posti a tutela dell’individuo e dei suoi diritti inviolabili.
    Il principio contenuto nella Costituzione che richiede un atteggiamento di equidistanza tra Stato e Confessioni religiose, andrebbe applicato prima nei confronti del singolo in modo tale che attraverso il suo inserimento nella vita quotidiana, si rifletti poi nella collettività.
    In conclusione si può ritenere che la sentenza del Tribunale di Verona si sia sbilanciata completamente a tutela della collettività, senza tenere presente il diritto soggettivo della Signora che invece andrebbe sviluppato in maniera più concorde con i principi enunciati nella Costituzione e, con riferimento alla comunità internazionale, nella CEDU (Articolo 9 – Libertà di pensiero, di coscienza e di religione).

  10. Il punto sul quale a parer mio dovrebbe vertere l’analisi della sentenza riportata, è quello relativo al diritto di autodeterminazione di un soggetto, perno di decisioni giurisprudenziali ed espresso indirettamente dalla nostra Costituzione (artt. 2-3-13) nonchè dalla Carta europea dei diritti dell’uomo (artt 2-8-24) ed al concetto di dignità. Il fatto che il contenzioso abbia ad oggetto il cambio di un nome che rimanda alla figura della madonna, è una questione di secondo ordine. In virtù dei principi sopra citati, dovrebbe essere garantita la possibilità a chiunque di usufruire della possibilità di cambiare nome qualora lo si ritenga inappropriato alla propria persona. D’altronde nel garantire al soggetto una pacifica esistenza nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, lo Stato dovrebbe provvedere a fornire al soggetto stesso gli strumenti affinché ciò sia possibile. Chiaramente il cambio del nome, ove ne si sentisse l’esigenza, sarebbe un incipit; anche in considerazione della funzione e dell’uso frequente e diffuso che nella società moderna si fa del nome stesso. In considerazione del fatto che il nome di ognuno è frutto dell’altrui volontà (genitoriale per lo più) nel nostro ordinamento, la legge dovrebbe garantire, nei casi di rifiuto di quello imposto, da parte del soggetto ormai capace giuridicamente, la possibilità che egli si riappropri della sua sfera di libertà ed autodeterminazione personale e lo modifichi. Tanto più che il nome Immacolata fa riferimento ad una figura religiosa estranea chiaramente alla ricorrente. Le corti scelgono talvolta (faccio riferimento alla sentenza del tar 556/2006) di traslitterare il significato di alcuni simboli religiosi (nella fattispecie del crocifisso, ora del nome Immacolata) su un piano meramente culturale creando così un vulnus nel sentimento religioso di chi, diversamente, preferirebbe che ad ogni simbolo della confessione religiosa venisse ricondotto il suo significato originario rinvenibile nelle sacre scritture. Nella sentenza del tar, il crocifisso era visto in quanto simbolo di valori civili; nella sentenza di specie il nome Immacolata è “omaggio, per il tributo portato alla divinità il cui credo è il più diffuso nella collettività nazionale, oltreché riconosciuto dallo Stato con i patti lateranensi prima e con il nuovo “Concordato” più di recente”. Fermo restando il vulnus inferto al principio di laicità dello Stato (con le motivazioni addotte dal tribunale nella sentenza), bisogna a questo punto chiedersi se quella che portano avanti i giudici è una tutela della religione cattolica, oppure un’arma tesa al suo degrado a mero angolo storico e culturale del nostro Stato.

  11. Il diritto al nome appartiene al novero dei diritti inviolabili e viene tutelato dall’articolo 2 Cost.
    Il principio dell’immutabilità del nome, tuttavia, non è assoluto, in quanto sono ammessi cambiamenti nei limiti stabiliti dalla legge e analiticamente disciplinati dagli articoli 84 e ss. del d.p.r. 396/2000. Tale decreto regola il procedimento di rettificazione del nome, prevedendo in forza del regio decreto 1238/1939 i casi in cui la modifica del nome è lecita, ossia in caso di nomi vergognosi, ridicoli, offensivi dell’ordine pubblico, del buon costume e, a dire del giudice veronese nella sent. 44/1999, anche in caso di nomi che recano offesa al sentimento religioso. Nel caso in questione alla ricorrente viene negata la possibilità di mutare il nome di battesimo, Immacolata, in Claudia in quanto il primo non è idoneo a recarle un’offesa alla luce di una interpretazione del sentimento religioso in chiave collettiva. Tale interpretazione del giudice, scarsamente motivata, pare a suo avviso giustificabile col fatto che la religione cattolica sia la più diffusa sul territorio nazionale oltre che riconosciuta dallo Stato con Patti Lateranensi prima e dal Concordato poi. Personalmente ritengo che, in primo luogo, il giudice abbia commesso un errore nel citare il Concordato del 1984, nel quale si ribadisce la piena laicità dello Stato italiano. In secondo luogo, il criterio della collettività sopra citato è stato trasformato in un criterio meramente numerico senza alcun fondamento. Infine, il giudice ha deciso di tutelare maggiormente l’interesse collettivo rispetto alla libertà di coscienza nonostante tale valori risalti tra quelli individuati dalla nostra Carta costituzionale. Alla luce di tutto ciò pare logico propendere per una interpretazione più attuale del sentimento religioso collettivo e più affine anche al concetto di laicità e pluralismo religioso, dissentendo in tal modo con la decisione del giudice del tribunale di Verona.

  12. L’ordinamento giuridico italiano riconosce il diritto al nome,inseribile nel novero dei diritti inviolabili dell’uomo ex. art.2 Cost., quale primo e più immediato segno distintivo che caratterizza l’identità personale. Il principio di immutabilità del nome trova giustificazione nell’interesse collettivo al riconoscimento e alla certezza dei rapporti giuridici. Cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome non sono dunque rimesse all’arbitrio del singolo e trovano ammissibilità nei soli casi e con le formalità indicate dalla legge ( D.P.R. n.396/2000). La procedura di modifica del prenome è disciplinata nel testo unico dello stato civile (rettificazione degli atti di nascita) ed è attivabile nei casi di nome vergognoso o ridicolo o recante offesa all’ordine pubblico,al buon costume o al sentimento religioso. Il Tribunale di Verona sostiene la non applicabilità della norma al caso di specie: il sentimento religioso da prendere il considerazione è quello collettivo e non quello meramente individuale; l’attribuzione del nome “Immacolata” non comporta offensività ed è considerato dal Tribunale un omaggio alla divinità “il cui credo è il più diffuso nella comunità nazionale”.

    Ammessa e non discussa la maggiore diffusione del credo cattolico rispetto alle altre confessioni religiose, la Costituzione opera ,tramite l’art.8 ,una parificazione giuridica delle diverse componenti religose presenti in tutto il territorio nazionale . La considerazione del nome “Immacolata” come tributo alla divinità e pertanto non offensivo rappresenta,nella mia opinione, un elemento soggettivo da rapportare al sentimento religioso del singolo. Il concetto di sentimento religioso dovrebbe essere reinterpretato in chiave più moderna alla luce dell’indiscusso principio di laicità dello Stato. Essendo il nome in questione incompatibile con l’orientamento religioso della ricorrente, risulta a parer mio leso il diritto all’identità personale,intesa quest’ultima come proiezione di sé nel sociale. Pur riconoscendo l’importanza che il principio dell’immutabilità del nome assume a livello giuridico e sociale,ritengo criticabile la motivazione addotta dal Tribunale di Verona a sostegno dell’inammisibilità del ricorso .

  13. corinna

    A parer mio le argomentazioni del giudice del T.A.R complessivamente considerate sembrano non attenersi, anzi collidere duramente con gli stessi principi supremi alla base del nostro ordinamento giuridico. E’chiaro che il concetto di “sentimento religioso”contenuto nel regio decreto n 1238/1939,nel quale vengono disciplinati i casi leciti di modifica del nome-rettifica ,sia un sentimento riferito alla collettività e non al singolo individuo.Ma una lettura costituzionalmente orientata che tiene conto del principio di laicità dello stato,uguaglianza, pluralismo religioso comprendente libertà positiva-negativa,facoltà di mutare il proprio credo religioso (affermati dalla costituzione agli art- 2,3,7,8,19,22) avrebbero permesso il riconoscimento del diritto al mutamento del nome che dovrebbe essere corollario del già tutelato diritto al nome quale elemento caratterizzante dell’individuo.Inoltre Prendendo atto dei cambiamenti sociali e delle diversa contingenza storica in sede di bilanciamento dei diritti si sarebbe potuto leggere il “sentimento religioso ” della comunità come un interesse alla difesa non-offesa della pluralità dei sentimenti religiosi( alla massima valorizzazione delle diverse istanze religiose positive e NEGATIVE) quindi assolutamente compatibile con l’interesse individuale della richiedente.
    La corte continua utilizzando l’argomentazione dei patti Lateranensi e del successivo Concordato in modo improprio, non tenendo conto dell’art 8 della costituzione che sancisce l’uguaglianza delle diverse confessioni religiose , arrivando quasi a dare giudizi di valore <>.
    Sono comprensibili le esigenze di tutela pubblica riguardo la rintracciabilità del soggetto mediante uguale nome a garanzia dei rapporti giuridici,diritti,doveri,obblighi su di lui pendenti ma in questo caso la richiedente aveva già dimostrato di spendere il nome “Claudia” da molto tempo,sia in rapporti privati che di lavoro. Quindi il soggetto sarebbe stato comunque rintracciabile, “riconoscibile” garantendo così lo stesso interesse pubblico.La Corte conclude citando l’istituto dello pseudonimo previsto dall art 9 c.c , così facendo a parer mio viene svilito ed offeso il principio di autodeterminazione,della libera disposizione di se’ e della libertà di coscienza dando una soluzione semplicistica,riduttiva alla questione.

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