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Il sostentamento del clero dal 1855 ad oggi

Quello del sostentamento del clero è uno dei problemi più spinosi che sorgono dal rapporto fra Stato e confessioni religiose; nel caso del rapporto fra Stato italiano e Chiesa Cattolica la situazione è ancora più complicata per gli stretti legami che intercorrono da sempre fra i due. Per capire la disciplina vigente bisogna analizzare, seppur brevemente, le vicende storiche precedenti.

Fino all’unificazione d’Italia esisteva lo Stato della Chiesa, un vero e proprio Stato sovrano; dopo il 1870, con la breccia di Porta Pia, l’Italia disconosce la supremazia territoriale del Pontefice e dello Stato della Chiesa: è così che nasce la spinosa “questione romana”, rimasta insoluta fino al 1929; con l’avvento del Fascismo il Vaticano coglie l’opportunità per riacquistare il potere che aveva perso e il Cattolicesimo diventa religione di stato: Mussolini vede nella religione un mezzo per unificare e controllare la popolazione e la Chiesa approfitta del potere restituitole. Nel 1948 con l’entrata in vigore della nuova costituzione italiana viene sancito il principio di laicità dello stato, ma da quasi due millenni il paese ha vissuto sotto la guida, non solo spirituale, del Cattolicesimo.

Già da queste poche righe si capisce come la storia della Chiesa sia profondamente intrecciata alle vicende politiche dello stato italiano.

Per quanto riguarda il problema del sostentamento del clero bisogna partire da una legge del Regno di Sardegna, la l. 29 maggio 1855; con questa norma vengono soppresse tutte quelle congregazioni religiose non dedite alle attività tipiche degli enti ecclesiastici – ad esempio l’assistenza ai malati, l’istruzione, le opere di carità – e i beni in loro possesso vengono destinati ad un ente governativo, la Cassa ecclesiastica, che poi diventerà il “Fondo per il culto”. Con il ricavato di questi beni lo Stato può assicurare una certa somma di denaro, come una retribuzione minima, ai parroci che ne avevano diritto: comunemente la parrocchia era affiancata da una serie di beni, terreni, appartamenti, obbligazioni, che formavano il beneficio, persona giuridica il cui patrimonio serviva a mantenere il ministro di culto, ma che a volte non era considerato sufficiente a garantire un reddito minimo tale da garantire una vita dignitosa. La legge stabiliva il quantum di questa remunerazione minima e, qualora i fondi derivanti dal beneficio non fossero sufficienti a raggiungere questo livello minimo, lo Stato avrebbe versato il cosiddetto supplemento di congrua, cioè la somma di denaro mancante per raggiungere la retribuzione minima. Il supplemento di congrua, che pesa sul fondo per il culto, è dunque l’istituto, a carattere di alimenti , volto ad assicurare agli ufficiali ecclesiastici una remunerazione minima e necessaria a vivere dignitosamente.

Per quanto riguarda questo meccanismo, in dottrina erano sorte alcune critiche, in quanto si riteneva che attraverso il supplemento di congrua si venisse a creare una spaccatura economica interna al clero per cui si giungeva a distinguere un clero “povero” e un clero “ricco”. A questa affermazione si può facilmente obiettare che ciò non è vero in quanto il supplemento di congrua era volto ad assicurare a tutti i ministri di culto almeno una certa somma, considerata necessaria a vivere dignitosamente, per cui ci si trovava ad avere clero benestante e clero molto ricco, il tutto alle spalle dello Stato. Semmai questo meccanismo può generare problemi da un punto di vista di principio: il supplemento di congrua rimane in vigore anche dopo la promulgazione della Costituzione del 1948; è giusto che uno Stato che teoricamente si professa laico finanzi degli ufficiali ecclesiastici, per di più appartenenti solo a una determinata confessione religiosa, mentre i lavoratori laici non hanno questo tipo di tutela? Altra obiezione è che questa “remunerazione” minima ai ministri di culto è tutt’altro che minima: nel 1979 ai parroci spettavano 1.800.000 lire mensili, un operaio mediamente qualificato ne guadagnava mediamente 800.000.

Il meccanismo del supplemento di Congrua viene superato quando, in seguito al Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965), per volere di papa Giovanni XXIII, si decide che per garantire l’indipendenza e l’autonomia del clero dallo Stato, i fondi non debbano più essere gestiti dallo Stato, ma direttamente dalla Chiesa; si vuole così evitare che i ministri di culto diventino “dipendenti statali” e quindi diventino “fedeli” anche allo Stato. Questa volontà viene accolta dall’Italia con il concordato del 1984 e in seguito con la L. 20 maggio 1985, n. 222, Disposizioni sugli enti ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi.

In base alla nuova disciplina vengono soppressi tutti benefici e i beni che ne facevano parte, esclusi gli edifici di culto e quei beni che vi erano estranei (ad esempio le donazioni modali dei fedeli), vengono trasferiti a nuovi istituti creati ad hoc, gli Istituti diocesani, o interdiocesani in caso di diocesi piccole, per il sostentamento del clero. Ogni Istituto provvede, in conformità allo statuto, adottato con decreto del Vescovo, ad assicurare il “congruo e dignitoso sostentamento del clero che svolge servizio in favore della diocesi” sulla base di criteri stabiliti dalla CEI (Conferenza Episcopale Italiana).

Accanto agli Istituti diocesani viene creato dalla CEI l’Istituto centrale per il sostentamento del clero. La funzione di questo istituto è quella di intervenire in via sussidiaria e integrare le risorse per il mantenimento del clero, qualora i fondi degli Istituti diocesani non siano sufficienti ad assicurare la remunerazione minima prevista per i ministri di culto.

I fondi dell’istituto centrale derivano dalle oblazioni dei fedeli persone fisiche entro un limite di due milioni di lire (art. 46, l. 222/85) e parte dell’otto per mille ex artt. 47 e 48 l. 222/85. Inoltre l’Istituto centrale per il sostentamento del clero, essendo dotato di personalità giuridica, può compiere tutti gli atti finalizzati ad incrementare il suo patrimonio (ricevere donazione, effettuare investimenti ecc.).

Con questa nuova disciplina sorgono nuovi problemi di legittimità, primo fra tutti quello derivante dai trasferimenti di beni dai benefici agli Istituti diocesani.

I trasferimenti di proprietà dai benefici agli istituti diocesani, infatti, avvenivano tramite un decreto del vescovo, poi riconosciuto dallo Stato con decreto del Ministro degli Interni, senza che venisse pagata alcuna tassa sul passaggio di proprietà. Inoltre i beni esclusi dal trasferimento venivano trasferiti a diocesi e parrocchie, anche in questo caso senza alcuna tassa.

Da questo quadro generale emerge chiaramente come i rapporti dello Stato italiano con le confessioni religiose viaggino su un “doppio binario”, uno per la Chiesa Cattolica e uno per tutte gli altri culti, nonostante il primo comma dell’art. 8 della Costituzione.


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