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Sostentamento del clero

Per discutere del Sostentamento del clero, dobbiamo fare una piccola regressione al 1855, precisamente alla legge del 29 maggio del 1855 del Regno di Sardegna, la quale dispose la soppressione delle congregazioni religiose non dedite alla predicazione, all’assistenza, agli infermi e all’istruzione ed inoltre dispose la devoluzione dei loro beni alla “cassa ecclesiastica” (un ente governativo), poi divenuto “fondo per il culto”. Con la vendita dei loro beni e il contributo riscosso dai più ricchi tra gli enti ecclesiastici conservati, la cassa avrebbe assicurato ai parroci più poveri un reddito minimo. Creando quindi il supplemento di congrua si sollevò lo Stato da una spesa che prima gravava sul suo bilancio.

Il supplemento di Congrua è una retribuzione versata dallo Stato legata al reddito del beneficio, di misura variabile in relazione alla rendita del patrimonio beneficiale. Tale rendita veniva calcolata sul reddito dominicale, ovvero quello sul quale venivano pagate le imposte. Inoltre, la congrua veniva corrisposta a quei ministri di culto il cui beneficio produceva redditi in misura inferiore ad una somma minima prevista dalla legge e progressivamente aggiornata secondo l’andamento della svalutazione monetaria, al fine di garantire un reddito dignitoso. Nel 1922 il sistema fu esteso ai vicari, ai vescovi, ai cappellani curati e ai canonici semplici. L’assegno supplementare di congrua, essendo destinato ad assicurare ai parroci e agli altri ecclesiastici un congruo e decoroso sostentamento personale, era una prestazione a carattere alimentare posta dalla legge a carico del fondo per il culto. Alcune critiche, però, vennero mosse al sistema della congrua, in quanto in dottrina si sosteneva che tale strumento creava un clero ricco e uno povero, ma tale affermazione è poco condivisibile. Va considerato, infatti, che con l’introduzione nel sistema salariale dell’indennità di contingenza tale istituto venne esteso alle categorie suddette, modellando la loro retribuzione sulla struttura del salario per i lavoratori dipendenti. Nel 1979 l’entità del reddito dignitoso stabilito per legge era di L. 1.800.000 mensili. In considerazione di ciò non si può parlare, quindi, di clero ricco e povero ma piuttosto di clero molto ricco in relazione a benefici il cui reddito era molto alto.

Nel 1984 venne sottoscritto tra Stato e Chiesa Cattolica un nuovo Concordato, il quale modificava i Patti Lateranensi del 1929. Gli argomenti del nuovo Concordato erano: il matrimonio, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole e gli enti ecclesiastici, con riferimento anche al sostentamento del clero. Tale Concordato non è un concordato unitario, ma è formato da più documenti che trattano di singole materie, col vantaggio che se dovesse essere messo in discussione un dato argomento non è necessario mettere in discussione tutto il concordato. Ci troviamo di fronte, dunque, a tre documenti: il concordato vero e proprio, un protocollo addizionale, che apre il Concordato, e specifica il contenuto del trattato stesso e nel quale, inoltre, si annuncia che nell’arco di un anno verrà emanata una legge riguardante, appunto, i beni ecclesiastici: la legge 222/1985.

Il 20 maggio del 1985 venne emanata la L. n. 222, la quale appunto tra l’altro riformava il sistema beneficiale. Si stabilì il passaggio da questo sistema ad un sistema più equo e moderno con l’istituzione l’introduzione degli Istituti Diocesani e Interdiocesani per il Sostentamento del Clero, coordinati dall’Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero (creato dalla CEI) nei quali confluirono i patrimoni dei benefici canonici estinti. In altre parole, i beni degli enti ecclesiastici vengono centralizzati presso la diocesi e da ciò si ricava il denaro con il quale l’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero paga la remunerazione ai ministri di culto. L’Istituto Centrale per il sostentamento del clero ha la funzione di coordinare il sistema e di integrare le risorse degli Istituti Diocesani attraverso la distribuzione delle entrate costituite dalle erogazioni liberali in denaro dei fedeli e della quota dell’otto per mille destinata dallo Stato alla CEI.

Gli Istituti Diocesani, i cui statuti sono stati emanati dai vescovi diocesani in conformità delle disposizioni della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) sono gestiti da un consiglio di amministrazione composto per almeno un terzo da rappresentanti designati dal clero diocesano su base elettiva; la loro principale funzione è quella, appunto, di assicurare, nella misura determinata dalla CEI, un congruo e dignitoso sostentamento del clero che svolge servizio in favore delle diocesi esercitando il ministero. Nel caso in cui, ciò che è in possesso degli istituti diocesani non basti per provvedere al pagamento di tutti i ministri presenti all’interno della diocesi, questo si rivolge all’Istituto Centrale il quale integrerà, appunto, le risorse degli Istituti Diocesani.

Il sostentamento assicurato ai sacerdoti di competenti Istituti costituisce una remunerazione connessa alla prestazione del servizio prestato a favore della diocesi, ai sensi degli articoli 24 e 25 del Concordato. La remunerazione non è ritenuta una vera e propria retribuzione del senso laburistico del termine. La Chiesa la definisce remunerazione perché vuole sottolineare che non si tratta di un salario, è una somma che ha il è fine al solo sostentamento del ministro di culto. La remunerazione è equiparata ai soli fini fiscali al reddito da lavoro dipendente, e costituisce l’oggetto di un vero e proprio diritto, al quale corrisponde l’obbligo dell’ente erogante di retribuire il servizio ricevuto.

La Chiesa rivendica sul proprio ministro di culto un certo potere disciplinare: è il vescovo che decide se far restare o meno in servizio un ministro, a seconda del suo comportamento nei confronti della comunità religiosa e nei confronti del proprio credo. Ponendo il caso che il ministro di culto non trasmetta correttamente ai fedeli i dogmi della propria confessione religiosa e il vescovo non sia d’accordo con questa pratica può decidere di togliergli la carica. Quindi se il ministro di culto fosse “stipendiato” dallo Stato questi sarebbe un funzionario dello Stato, quindi potrebbe adire il vescovo impugnando l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, ma non essendo pagato dallo Stato per la sua funzione egli non è un funzionario dello Stato e potrà adire il vescovo solo nel caso in cui la sua retribuzione non è pari a quella che gli spetterebbe, in questo caso allora egli potrà decidere se agire in giudizio innanzi un tribunale ecclesiastico o innanzi al tribunale del luogo in cui si è verificata la discriminazione, sezione lavoro, sede civile non essendo stata stabilita alcuna competenza esclusiva di giurisdizione in favore della Chiesa. Si tratta dunque di un caso di giurisdizione concorrente, in via alternativa, regolata dal principio di prevenzione.

L’interesse della Chiesa cattolica a mantenere questo tipo di retribuzione è quella di far capire al ministro di culto che è la chiesa che lo paga e che quindi è servo di un solo padrone e deve dare conto riferire solo al vescovo del suo operato. Il ministro di culto è dipendente, volontariamente, dalla chiesa e quindi dipende, volontariamente, dalla sua volontà.

Abbiamo detto che le risorse disponibili per il sostentamento del clero derivano dagli ex benefici, che sono stati trasferiti agli istituti per il sostentamento del clero creati a livello territoriale, in seguito all’accordo del 1984, e dai proventi dell’otto per mille dell’imponibile IRPEF, introdotto nel 1985 con la L. n. 222, all’art. 47.

L’otto per mille indica una quota di imposta, ricavata dall’IRPEF, che lo Stato italiano ripartisce in base alle scelte dei contribuenti, fra lo Stato stesso, la Chiesa Cattolica e le altre confessioni religiose che hanno stipulato un intesa con lo Stato, ai sensi dell’art. 8, co. 3 della Costituzione. Quando un contribuente dello Stato farà la dichiarazione dei redditi, si troverà di fronte ad un foglio che lo farà scegliere sulla destinazione dell’otto per mille. La scelta non è obbligatoria, tuttavia, anche l’otto per mille di un contribuente che non si è espresso verrà ripartito secondo un criterio proporzionale rispetto alla scelta di coloro che hanno espresso la propria volontà di destinazione.

Si è detto che destinatari dell’otto per mille può essere: lo Stato, in piccola parte; la Chiesa Cattolica, che risulta la destinataria prediletta dalla maggior parte dei contribuenti che hanno espresso la volontà; ed, infine, le altre confessioni religiose che hanno stipulato con lo Stato un’intesa. Questi destinano le risorse in modi diversi. Lo Stato nel momento in cui lo ha ricevuto fa un provvedimento di legge, nel quale si dice a cosa serviranno questi soldi. Per quanto riguarda la Chiesa Cattolica, le somme destinate ad essa vengono trasferite alla CEI, che è un ente giuridico italiano (l’ordinamento italiano lo ha riconosciuto come ente perché si è costituito in Italia). Questo ente riceve la somma e la ripartisce su a varie voci, una di queste è destinata all’Istituto per il Sostentamento del Clero, un’altra è destinata alla riparazione o costruzione di edifici di culto e un ultimo range è destinato a operazioni di carattere umanitario. La CEI deve comunicare quanto ha destinato alle varie voci e dare ragione dei capitoli di spesa che ha fatto. Infine, per quanto riguarda le altre confessioni religiose, che sono tenute anch’esse, a fornire delle relazioni su come hanno speso il ricavato dell’otto per mille, molte di queste, nel momento in cui si destina a loro, indicano come le risorse saranno ripartite esattamente e a chi e a che cosa dedicheranno le risorse che il contribuente ha fornito. fornirà

Inoltre si deve aggiungere che nel caso in cui un ministro di culto è anche un dipendente dello Stato (ad esempio potrebbe essere un insegnante di religione), si troverebbe a recepire due remunerazioni, uno proveniente dallo Stato e uno dall’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero; in questo caso si vedrà quale delle due remunerazioni è più alta (di solito quella dello Stato) e quella più bassa sarà ritirata (di norma, quella dell’Istituto Diocesano). Questo perché l’Istituto Diocesano, Interdiocesano o quello Centrale, remunerano solo i ministri di culto che non hanno alcun provente da altra attività svolta.


1 Comment

  1. Non ho capito una cosa: durante la vita lavorativa il clero versa i contributi pensionistici all’inps e chi li versa?

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