Pedofilia: responsabilità del chierico e della gerarchia ecclesiastica
Era il 21 Luglio del 1542 quando Papa Paolo III Farnese emanò la Costituzione Licet ab initio, dando vita ufficialmente ad una delle Congregazioni più importanti e antiche della Chiesa Cattolica. Grazie a questo documento di indiscusso valore storico, il Sommo Pontefice istituì la Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione avente lo scopo di vigilare sulle questioni della fede e di difendere la Chiesa dalle eresie.
I secoli passarono, le competenze della Congregazioni si ampliarono a causa di numerose riforme e la sua stessa denominazione cambiò in Congregazione della Dottrina e della Fede.
Le sue funzioni sono attualmente elencate nella Costituzione apostolica Pastor Bonus, promulgata nel 1988 da Papa Giovanni Paolo II e successivamente modificata mediante motu proprio da Benedetto XVI.
Tuttavia, ai fini del presente intervento, è necessario limitare il campo di indagine iniziando a prendere in esame l’art. 52 della seguente Costituzione, nel quale è enunciata una delle funzioni di maggior rilievo cui le è stata attribuita: quella giurisdizionale.
Secondo il dettato la Congregazione “giudica i delitti contro la fede e i delitti più gravi commessi sia contro la morale sia nella celebrazione dei sacramenti, che vengano ad essa segnalati e, all’occorrenza, procede a dichiarare o ad infliggere le sanzioni canoniche a norma del diritto, sia comune che proprio.”
Ed è proprio tra i delitti più gravi di cui un chierico può macchiarsi, che ve n’è uno in particolare che provoca maggiore sdegno, indignazione e riprovazione data la sua entità; mi riferisco al triste fenomeno degli abusi sessuali nei confronti di minori, fenomeno che tanto sta scuotendo l’opinione pubblica e pone importanti interrogativi sul corretto funzionamento morale, etico, religioso della Chiesa Istituzione.
Al fine di facilitare la corretta applicazione della normativa canonica vigente in materia e per meglio favorire un corretto inquadramento della problematica in relazione all’ordinamento civile dello Stato, è stata altresì emanata nel maggio 2012 una linea guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici.
Nella presente guida oltre ad essere indicati i profili canonistici e penalistici, vi sono anche quelli relativi ai rapporti con l’autorità civile ed in merito a questi si afferma che “nell’ordinamento italiano il Vescovo, non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio, non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti oggetto delle presenti Linee guida” poiché “il procedimento canonico per gli illeciti in oggetto è autonomo da quello che si svolga per i medesimi illeciti secondo il diritto dello Stato.”
E’ ben nota purtroppo la scarsa collaborazione tra le autorità civili e quelle ecclesiastiche, anche nel caso in cui venga aperto un procedimento penale, e molto spesso queste ultime si avvalgono della facoltà di non deporre o esibire documenti in merito a quanto detenuto o conosciuto per ragione del proprio ministero.
I problemi di maggior criticità per le autorità civili attengono alla ricostruzione della responsabilità della gerarchia ecclesiastica nel caso degli abusi sessuali commessi da chierici, la responsabilità da esercizio del ministero pastorale e l’eventuale espansione di essa all’ente ecclesiastico. Nel caso di responsabilità civile chi dovrà risponderne? Solo il sacerdote o anche in via estensiva l’autorità gerarchicamente superiore ad esso? Occorre valutare se sussiste una connessione tra la condotta illecita dell’autore dell’abuso e responsabilità indiretta a carico dei membri a lui sovraordinati. Ma può configurarsi un’ipotesi di responsabilità solidale? E soprattutto quali mezzi ha a disposizione la giurisdizione civile tali da permettere una chiara ed inequivocabile connessione tra l’operato di un sacerdote e quello del suo ordinario?
Non è facile rispondere a tali domande e forse non esiste neanche una risposta univoca.
L’ordinamento dello Stato per poter far fronte a tali interrogativi non può non tener presente i canoni del diritto canonico, cosi come non può non prendere in considerazioni alcune pronunce e considerazioni effettuate da giudici di altri paesi e di altri sistemi.
L’esperienza americana, maturata a seguito di una crisi legata allo scandalo dei preti pedofili, cerca di imputare oggettivamente in capo ai vertici della gerarchia ecclesiastica le conseguenze patrimoniali degli atti illeciti posti in essere dai chierici a servizio delle diocesi. A coloro che rivestono una posizione apicale è imputata la responsabilità per gli illeciti commessi dai propri subordinati nell’esercizio delle proprie funzioni. Per alcuni si tratterebbe di una responsabilità ascendente (ascending liability) a titolo di responsabilità vicaria (vicarius liability) la cui esistenza si accerterebbe sulla base del rapporto di subordinazione intercorrente tra il responsabile ed il subordinato, e sul potere di controllo del primo sul secondo (c.d. teoria respondeat superior). Vale ricordare che le corti statunitensi sono giunte a questo genere costruzione attraverso una diretta interpretazione delle norme contenute nel C.I.C..
Altri orientamenti preferiscono tuttavia un accertamento in concreto della condotta, focalizzando in particolare l’attenzione sulla condotta negligente del “superior” committente dell’incarico pastorale al proprio subordinato.
Il giudice Italiano è solito partire ai fini di una valutazione circa l’eventuale responsabilità civile del superiore dall’art. 2049 del c.c., secondo cui: “I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti.”
Innanzitutto alla luce di quanto affermato dalla Cass. pen., 9 luglio 1992, n. 7877, la responsabilità oggettiva indiretta del committente trova la sua giustificazione nel principio del cuius commoda eius incommoda, ossia nell’esigenza che colui il quale beneficia dei risultati di una certa attività deve altresì sopportare i rischi inerenti all’esercizio di essa ed i suoi eventuali effetti dannosi.
In secondo luogo affinché ricorra un’ipotesi di responsabilità ex art. 2049 c.c. è necessario che ricorrano due presupposti: a) che vi sia un rapporto di subordinazione o di incarico; b) che sia rispettato il criterio dell’occasionalità necessaria.
Circa il primo requisito, è sufficiente che al vincolo di subordinazione corrisponda un potere di direzione e di sorveglianza da parte del committente e nel caso di specie il vincolo di subordinazione del chierico al Vescovo è comprovabile dal momento che quest’ultimo deve seguire con particolare sollecitudine i presbiteri, ma anche curare e difendere i loro diritti in modo che adempiano fedelmente agli obblighi proprio dello loro stato (cfr. can. 384). In considerazione di ciò, ritengo che sia scorretto definire il rapporto intercorrente tra il Vescovo ed il presbitero come semplice “vincolo di comunione” trattandosi piuttosto di un vero e proprio “vincolo di subordinazione” caratterizzato da doveri e obblighi gravanti su entrambe le parti a seguito dell’affidamento della missio canonica (cfr. can. nn. 515 § §1-2, 520 ss).
Un’ulteriore conferma è possibile riscontrarla in numerosi canoni del C.I.C.: si pensi can. 273, ove si riporta espressamente che “i chierici sono tenuti all’obbligo speciale di prestare rispetto ed obbedienza al Sommo Pontefice ed al proprio Ordinario”; Sommo Pontefice ed Ordinario sono soggetti inseriti all’interno di un’Istituzione fortemente gerarchizzata nella quale ciascuno ricopre un ruolo ben specifico e detiene poteri prestabiliti di conseguenza è difficile immaginare l’inesistenza di un vincolo di subordinazione che intercorre tra le diverse figure.
Ma altri riscontri si hanno anche nei can. nn. 519 (il parroco è il pastore proprio della parrocchia affidategli, esercitando la cura pastorale di quella comunità sotto l’autorità del Vescovo diocesano con il quale è chiamato a partecipare al ministero di Cristo […].”), 528 §2 (nella parte in cui si afferma che “il parroco deve essere il moderatore nella sua parrocchia, sotto l’autorità del Vescovo diocesano e sulla quale è tenuto a vigilare perché non si insinuino abusi”), e 538 §1 ( “il parroco cessa dall’ufficio con la rimozione o il trasferimento deciso da parte del Vescovo diocesano a norma del diritto, con la rinuncia fatta dal parroco stesso per giusta causa, la quale per essere valida deve essere accettata dal Vescovo.”).
Ma andando oltre, sempre in tema di responsabilità, è legittimo ipotizzare anche che l’affidamento dell’incarico pastorale potrebbe rappresentare un atto commissivo sussumibile all’art. 2043 c.c., facendone discendere una presunzione legale di colpa generica a carico del Vescovo che imprudentemente o negligentemente abbia incardinato ad un soggetto privo delle qualità richieste per ricoprire quel determinato munus.
Ritornando ora all’analisi dell’art. 2049 c.c. è possibile precisare come la giurisprudenza sia giunta a ritenere irrilevante che il vincolo medesimo sia occasionale e temporaneo, poiché a parere suo l’evento deve essere reso possibile o quanto meno agevolato dal solo adempimento della commissione. Non è necessario che le persone siano legate da uno stabile rapporto di lavoro subordinato, essendo sufficiente piuttosto che esse siano inserite nel contesto “aziendale” ed abbiano agito in esso per conto e sotto la vigilanza del responsabile. In tale contesto il responsabile risponderà dell’eventuale danno anche nel caso in cui il suo subordinato abbia agito abusando delle sue mansioni.
Un orientamento consolidato definisce questo rapporto giuridico tipico come rapporto di “preposizione” la cui sussistenza si riscontra tutte le volte in cui l’attività del preposto sia strumentale rispetto all’utilizzazione che ne fa il preponente
Passando al secondo presupposto, ossia l’occasionalità necessaria, esso viene inteso dalla giurisprudenza della Cassazione come “la situazione nella quale le mansioni o le incombenze affidate al dipendente abbiano reso possibile o abbiano agevolato il comportamento produttivo del danno (cfr. Cass. sez. III, 6 marzo 2008, n.6033) rimanendo irrilevante che tale condotta si ponga in modo autonomo rispetto nell’ambito dell’incarico o abbia ecceduto i limiti di esso” (cfr. Cass. 11.8.1988 n. 4927; Cass. Sez. III, 12 marzo 2008, n.6632).
È irrilevante che il soggetto subordinato nel superare i limiti delle mansioni abbia agito con dolo o per finalità prettamente personali (cfr. Cass. sez. III, 22 agosto 2007, n.17836); a rilevare è il collegamento tra il fatto dannoso commesso dal subordinato e le incombenze da questo espletate all’interno dell’ambito delle proprie mansioni (cfr. Cass. sez. III, 24 gennaio 2007, n.1526).
Accogliendo la tesi della responsabilità del superiore gerarchico si ammette indirettamente la sussistenza di un rapporto definibile in termini giuslavoristici, dimensione più che corretta se si traspone il rapporto in questione dall’ordinamento canonico a quello civile dello Stato.
La giustificazione canonistica secondo la quale la relazione intrasoggettiva che intercorre tra l’Ordinario ed il chierico non ha natura giuridica ma puramente teologica (poiché basata sui voti di povertà, castità obbedienza) mal si concilia all’interno di un ordinamento civile che usa ricorrere a parametri puramente oggettivi per la definizione di tali fattispecie.
Questo tentativo di estendere l’ambito di responsabilità ha dei riscontri in alcune pronunce delle Corti americane che non a caso che considerano coloro che sono impegnati nell’attività ministeriale di una diocesi come funzionari.
Sono ormai numerose le sentenze pronunciate dai giudici Italiani in materia di abuso sessuale minorile da parte di sacerdoti, e nella maggior parte dei casi le eccezioni sollevate dai rappresentanti legali dei convenuti si basano sull’asserzioni volte a deresponsabilizzazione delle rispettive parti.
Si tende generalmente di negare il rapporto di subordinazione (Trib. Lecce sez. I pen., 8 ottobre 2012) e di limitare quello relativo al dovere di vigilanza del Vescovo che si estenderebbe solo sull’attività presbiteriale e non invece alla sua vita privata (Trib. Bolzano I sez. civ. 21 agosto 2013).
Mettere in discussione l’applicazione dell’art.2049 c.c. non è un’operazione semplice dal momento che la giurisprudenza ha fornito un’interpretazione molto ampia di esso, cosi come è molto ardito sostenere che si tratta di una situazione privata quella in cui un sacerdote abusi all’interno della sacrestia in occasione di un progetto sociale diocesano.
Ordinamento Civile ed Ordinamento canonico sono autonomi e indipendenti e ciò ovviamente fa si che anche le rispettive giurisdizioni godano di autonomia ed indipendenza. Sarebbe tuttavia auspicabile un maggior senso di collaborazione e scambio di informazioni tra i due sistemi, in particolar quello canonico nel caso in cui si verifichino questi orribili casi dovrebbe dimostrare una maggiore disponibilità ed apertura. Non credo che sia giuridicamente e moralmente corretto cercare di seppellire situazioni cosi gravi nella speranza che non vengano alla luce. Scardinare un sacerdote dal suo incarico ed inviarlo ad un’altra diocesi, nasconderlo e proteggerlo anche dalle autorità civili non credo che metta in buona luce sull’operato della Chiesa Istituzione. La leale collaborazione è un principio di fondamentale importanza, principio che evidentemente la S.S. Chiesa deve far proprio all’interno del proprio ordinamento.
Elaborato scritto e redatto da Alessia Funari
Complimenti Alessia! 🙂