Simboli religiosi sì, simboli religiosi no.
È recente la notizia dell’abolizione del divieto di indossare il velo islamico, fino alla settimana scorsa applicato in Turchia alle donne dipendenti pubblici. La legge si inserisce in un pacchetto di riforme che -nelle intenzioni del legislatore- dovrebbero aumentare il livello di democraticità del paese, ma ha incontrato l’opposizione di chi teme una inversione “islamizzante” del paese.
Secondo Ataturk, che aveva introdotto il divieto nel 1925, è una questione di laicità. Secondo Erdogan è una questione di libertà di espressione e di religione.
Si tratta quindi di eliminare un fattore di discriminazione sul lavoro, fondato sull’appartenenza religiosa? O si sta smantellando un apparato di norme difensivo di un bene pubblico? E se sì, qual è il bene che il divieto di indossare il velo islamico concretamente tutelava?
Domande, queste, non lontane da quelle sollevate dalla Carta della laicità francese: “Negli istituti scolastici pubblici è vietato esibire simboli o divise tramite i quali gli studenti ostentino palesemente un’appartenenza religiosa” (art.16).
Davanti al divieto posto ai privati (che in questo caso, diversamente da quanto è accaduto in Turchia, non ricoprono nemmeno un ruolo pubblico) di esibire simboli rivelatori dell’appartenenza religiosa, mi chiedo innanzitutto quale sia il confine tra l’ostentazione palese e la manifestazione esteriore e visibile del proprio credo.
Una circolare del Ministero dell’educazione nazionale, dell’insegnamento superiore e della ricerca (18 maggio 2004) ha individuato i simboli appartenenti alla categoria dei “simboli ostentatori” in forza dell’intenzione del soggetto che li indossa. Devono essere cioè portati per farsi immediatamente riconoscere quali appartenenti ad una data confessione (cf. Casuscelli, Nozioni di diritto ecclesiastico, pg. 408, nota 3).
Sorge una domanda: è pericolosa l’intenzione di palesare il proprio credo religioso? Deve essere punita? Non dovrebbe essere questa intenzione difesa allo stesso modo in cui è difesa l’intenzione di non palesare la propria fede? Quale è il danno provocato?
Ancora, mi chiedo quale sia il bene concretamente tutelato da questa norma; in che misura le libertà religiose e la laicità dello Stato e delle istituzioni sono lese in stati, come il nostro, che permettono di indossare simboli religiosi; infine, se l’art.16 della Carta della laicità non sia motivato da ostilità o -peggio ancora- da timore nei confronti del fenomeno religioso, più che dal desiderio di garantire la libertà di scegliere in coscienza il proprio credo religioso.
Articolo scritto e redatto da Rebecca Righi