La “Breccia di Porta Pia” in versione Cinese
Il Tibet: è conosciuto con questo nome dagli Occidentali, ma è Xīzàng, battezzato dai cinesi; la questione non è tanto come denominare quel territorio, ma sta più nel trovare quell’asse d’equilibrio tra le due parti contrapposte:la Repubblica PopolareCinese e i monaci Tibetani guidati indirettamente da Sua Santità Il Dalai Lama che prima risiedeva nel Parco del Norbulinka, ma attualmente è in esilio in India dal 1959.
Per essere precisi, è stato costretto a fuggire dall’altopiano tibetano per salvarsi la vita e dare un futuro al suo popolo attraverso la sua testimonia ed la sua immagine spirituale.
Ma perché il Governo di Beijing ci tiene tanto a questo territorio, a sua volta tanto rivendicato dal popolo tibetano e dallo stesso Dalai Lama?
Ogni guerra ha il suo motivo, la guerra di Troia per Elena, la guerra in Iraq o in Iran per i giacimenti di petrolio e non solo, quale sarà l’oggetto del contendere nella questione tibetana?
Il “segreto” sta proprio qua: se andassimo a prendere una cartina geografica noteremmo che la regione del Tibet è vasta quasi quanto l’Europa occidentale, con una superficie di circa1.200.000 chilometriquadrati ed è una zona secca. aspra, intransitabile, costituita da altipiani e cime che oltrepassano i6000 metri.
In effetti però in Tibet si trovano le sorgenti di cinque fra i più importanti fiumi dell’Asia, il cui controllo è necessario alla gestione delle risorse idriche, e si trovano anche i confini “delicati” con India, Buthan, Nepal e Birmania, Paesi che non sempre sono stati in buoni rapporti conla Repubblica PopolareCinese, ma fondamentali in termini strategici e commerciali.
Durante il decennio della Rivoluzione Culturale dal 1965 al 1975, voluta da Mao Zedong (毛泽东), precisamente nell’insurrezione armata del 1959, si ebbe una debellatio dell’intero patrimonio culturale e religioso del Tibet.
Migliaia di monasteri furono fatti saltare in aria con la dinamite, violenze indicibili furono attuate su monaci, resi “schiavi” nei campi di “concentramento” [ della disumana condizione nei “lager” cinesi, il testimone dissidente Harry Wu (in cinese Wu Hongda 吳弘達) ha raccontato nel suo libro intitolato “ Bitter Winds” pubblicato nel 1994)] e sull’intera popolazione civile.
Secondo stime approssimative il numero delle vittime è di circa 1.200.000 morti ammazzati.
La ribellione estrema che si esprime nella violenza verso se stessi, di cui il Tibet è stato tante volte testimone, rappresenta il rifiuto totale di un sistema che nega il rispetto dell’identità individuale e collettiva di un intero popolo.
Il Governo Cinese ha trasferito sull’altipiano tibetano circa sette milioni di cinesi Han, un milione in più rispetto gli stessi tibetani, ovviamente con molti agevolazioni sia economiche che tributarie.
Una rigida legislazione è stata imposta alle famiglie tibetane superstiti: è proibito ai tibetani di avere più di un figlio a famiglia, ma questa regola vale per gli stessi cinesi, in quanto vige tuttora la politica del figlio unico; è severamente vietato tenere immagini di Sua Santità il Dalai Lama; è vietato cantare canzoni folkloristiche ed ovviamente anche opporsi al regime del Partito Comunista; la lingua ufficiale è la lingua mandarino cinese ( 汉语). In sintesi, il Governo di Pechino vorrebbe una damnatio memorie del Popolo Tibetano, un’ eliminazione di tutte le memorie e i ricordi destinati ai posteri.
Tuttavia, il trattamento offerto da parte del Governo Cinese non fu tanto diverso verso i propri studenti cinesi, nel 1989, ricordato come la strage di Piazza Tienanmen, un massacro molto più evidente, sotto gli occhi di tutti.
Eppure davanti ad uno scempio alla democrazia palese, il Governo di Pechino passa “liscio come l’olio”, gli altri Stati non hanno fiatato, tranne le solite parole di vicinanza e solidarietà verso gli oppressi.
Tutti dicono e condannano fermamente , ma di fatto nessuno ha il coraggio, o la convenienza, nel darsi da fare ad opporsi al regime dittatoriale, legittimato nella stessa Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, nell’art. 1 che recita: “La Repubblica PopolareCinese è uno stato socialista di dittatura democratica popolare, guidata dalla classe operaia e basata sull’alleanza operai-contadini”.
Il Premier, Wen Jiabao, ha dichiarato che “ogni tentativo di incitare un piccolo numero di monaci ad intraprendere azioni estreme per minare la stabilità del Tibet non è nell’interesse dello sviluppo del Tibet né nell’interesse dei tibetani”.
Naturalmente, non poteva mancare il messaggio di solidarietà dell’altra Sua Santità , Papa Benedetto XVI (Joseph Aloisius Ratzinger ) che è intervenuto, in seguito alla repressione nell’Altopiano Tibetano, affermando la sua condanna verso gli atti di violenza e sostenendo un ricorso alle ragioni di dialogo.
Occorrono le intenzioni e la volontà delle parti per sedersi attorno ad un tavolo per discutere e dialogare , purtroppo da soli si ottengono solo monologhi inutili.
Il Daila Lama ha cercato e cerca di trovare una pace e una risoluzione equilibrata con il Governo dell’ “Impero di Mezzo”, ma finora non ha ottenuto nessun risultato.
Leggiamo qualche riga di un suo auspicio per la sua terra natia: “Il mio sogno è trasformare l’intero altopiano tibetano in un libero rifugio in cui la specie umana e la natura possano vivere in pace e in armonioso equilibrio. Un luogo in cui le persone, provenienti da tutte le parti del mondo, potrebbero andare e cercare il vero significato della pace dentro se stessi, lontano dalle tensioni e dalle pressioni presenti nella maggior parte del resto del mondo. Il Tibet potrebbe veramente diventare un centro creativo per la promozione e lo sviluppo della pace”.
Concludo, citando un “verso” del Premio Nobel per la Pace, Liu Xiaobo, che scrisse :“finché i Cinesi Han non avranno la libertà, il Tibet non avrà l’autonomia”, evidenziando questo forte nesso sinallagmatico tra la democratizzazione dei Cinesi Han e l’autonomia richiesta dal popolo tibetano.
Articolo scritto e redatto da Jin Cai